La tutela giudiziaria delle persone con disabilità
Breve commento alla Legge 67 del 2006 “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”
In vigore dal 21 marzo 2006, la nuova Legge sulla tutela giudiziaria delle persone con disabilità, pone una serie di interrogativi determinanti ai fini della sua piena applicazione.
Con l’ambizioso riferimento all’art. 3 della Costituzione, l’art.1 della Legge si fa carico della “piena attuazione” della Legge 104/1992 (Art. 3: È disabile colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione), inserendo però immediatamente un limite di applicabilità escludendo che si tratti di Legge che si riferisce alla disparità di trattamento nel campo del diritto del lavoro, perché in quest’ultimo caso verrà applicato il Decreto Legislativo 216/2003, che a sua volta ha recepito la Direttiva2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Dunque, sappiamo da subito che la Legge 67 non si applica ai casi relativi alla materia di occupazione al lavoro.
Conseguentemente, la Legge 67 dovrebbe applicarsi a tutti i potenziali e numericamente rilevanti casi residui. Il dato interessante è lo sforzo attuato dal legislatore per la classificazione e la concettualizzazione della “discriminazione”, sia essa diretta o indiretta. A onor del vero, la distinzione che segue e che è stata recepita dalla Legge 67, era già contenuta, seppure in modo più esteso, nel D. Lgs. 216/2003: Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga.
Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.
Sono, altresì, considerati come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti (Art. 2).
Nulla quaestio sui concetti di discriminazione diretta e indiretta. Il dubbio sorge invece relativamente alla “equiparazione” giuridica della discriminazione alla molestia e ai comportamenti indesiderati che violano la libertà e la dignità di una persona disabile, perché è troppo ampio il concetto e la discrezionalità interpretativa affidata al Giudice. Bisognerà distinguere di volta in volta se la molestia (recepita come tale dal disabile), o i comportamenti indesiderati (sempre dal punto di vista del disabile) siano oggettivamente tali da considerarsi “discriminatori”. Il Giudice non potrà semplicemente limitarsi al punto di vista del disabile, perchè altrimenti qualunque atteggiamento recepito da quest’ultimo come discriminatorio basterebbe come prova della violazione, con l’ulteriore aberrante conseguenza che sarà il disabile con un criterio soggettivo a decidere che si tratti di discriminazione. Il Giudice dovrà invece, con la massima attenzione, valutare alla stregua di criteri normativi e della costante giurisprudenza, se il singolo comportamento sarà discriminatorio, ammettendo come tale eventualmente anche l’atteggiamento ritenuto tale dal “sentire comune” e secondo il criterio preso in prestito dal diritto internazionale della opinio juris ac necessitatis, cioè di quel comportamento non codificato, ma ritenuto non solo applicabile per consuetudine, ma anche esecrabile dalla pubblica opinione. Sarà pure necessario, ovviamente, che il Giudice tenga in conto come il disabile ha percepito la discriminazione, alle sue condizioni personali e psicologiche, che saranno diverse tra soggetti diversi in presenza di una identica azione discriminatoria e conseguentemente recepite in modo diverso più o meno grave.
Venendo alla novità più importante introdotta dalla Legge 67, cioè alla tutela giurisdizionale dei disabili, bisogna preventivamente effettuare alcune brevi considerazioni. La tutela processuale di riferimento, per espresso rinvio della Legge 67, è al testo unico sulla immigrazione, cioè al D. Lgs. 286/1998.
Bisognerà pure ammettere che siamo in presenza di uno di quei rari casi nei quali una normativa speciale nata per determinate situazioni soggettive (immigrati) assume successivamente i caratteri dell’applicabilità come criterio generale per altre situazioni soggettive (disabili), col fondamento comune del concetto di discriminazione.
La Legge 67, in merito alla eventuale tutela processuale dei disabili che hanno subito discriminazioni, fa espresso riferimento all’art. 44 del Testo unico sull’immigrazione
In pratica, il disabile che ritiene di avere subito un atto discriminatorio sia dal privato che dalla pubblica amministrazione, può depositare il ricorso, anche personalmente, nella cancelleria del tribunale civile in composizione monocratica con il quale può chiedere sia la cessazione del comportamento discriminatorio che il risarcimento del danno. Il Tribunale, omettendo qualsiasi formalità, procede agli atti di istruzione che ritiene necessari al fine del provvedimento richiesto e decide con ordinanza di rigetto o di accoglimento. In quest’ultimo caso, l’ordinanza è immediatamente esecutiva e la sua mancata osservanza fa scattare il procedimento penale di cui all’art. 388 primo comma c.p.
Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e adotta ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, compresa l’adozione, entro il termine fissato nel provvedimento stesso, di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
Il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento a spese del convenuto, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, ovvero su uno dei quotidiani a maggiore diffusione nel territorio interessato
Nei casi di urgenza, il Tribunale provvede con decreto motivato, assunte, ove occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il tribunale in composizione monocratica, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto (Art. 44 , comma 5, T.U.)
Ovviamente, avverso l’ordinanza risolutoria del Tribunale è ammesso reclamo nelle forme proprie previste dal codice di rito
Competente per territorio è il Giudice del domicilio del ricorrente. Tale competenza è ritenuta inderogabile ex art. 28 c.p.c. e non può subire modifiche, neppure per ragioni di connessione (Cass. civ., Sez. III, 19/05/2004, n.9567). Così come sembra pacifica la competenza del Giudice ordinario anche se l’atto discriminatorio è posto in essere da una Pubblica Amministrazione (in tal senso Trib. Milano, 21/03/2002) non rilevando in contrario che il comportamento che si assume discriminatorio sia stato posto in essere dalla pubblica amministrazione e sia riconducibile all’applicazione di un atto amministrativo. La inderogabilità della competenza per territorio, vista in quest’ottica, dovrebbe essere confermata anche a seguito della recente sentenza della Corte Costituzionale n. 41/2006 nel caso di litisconsorzio necessario, che modifica la competenza a seguito di eccezione di incompetenza per territorio avanzata anche da un solo convenuto.
Diversa è l’ipotesi nella quale l’amministrazione ponga in essere atti lesivi degli interessi generali dei disabili, non classificabili a priori come discriminatori e aventi specificamente contenuto amministrativo, perché in tal caso, le associazioni e gli enti abilitati e riconosciuti dal Ministero per le pari opportunità, possono proporre azione per la tutela giurisdizionale in sede amministrativa (art. 4 Legge 67).
Il Tribunale può non solo rimuovere quindi le ragioni o gli atti della discriminazione, ma condannare il resistente al risarcimento del danno. Sul concetto di risarcibilità del danno anche non patrimoniale, non possiamo che fare espresso riferimento a quanto statuito da Cass. civ., Sez. III, 31/05/2003, n.8828, Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2 Cost., riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo -, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo.
Un ulteriore diritto concesso al ricorrente, è la deduzione in giudizio di elementi di fatto concordanti che il Giudice valuta nei limiti di cui all’art. 2729 I comma c.c., cioè con le presunzioni semplici. Ricordiamo che le presunzioni semplici sono quelle non stabilite dalla Legge e che obbligano il Giudice a una valutazione “prudente”. Gli elementi posti alla base delle presunzioni semplici devono essere precisi, gravi e concordanti, e possono “costringere” il resistente alla inversione dell’onere della prova. Il Giudice dovrà stare attento nell’assumere le presunzioni semplici a ”prova piena” e dovrà inevitabilmente fare riferimento anche in questo caso a elementi normativi, di fatto, giurisprudenziali.
In merito alla rappresentanza processuale dei soggetti incapaci, valgono le regole comuni. Saranno legittimati i genitori di disabili minorenni, i tutori e i curatori degli incapaci totali o parziali. Mi sembra altresì pacifico ammettere anche la legittimazione ad agire dell’amministratore di sostegno, previa autorizzazione del Giudice Tutelare. Tali soggetti legittimati, per espressa previsione dell’art. 4 della Legge 67, possono, con atto pubblico o scrittura privata autenticata, delegare gli enti preposti e riconosciuti ad agire in loro vece.